Amazon Prime Video, costi più alti e meno film inclusi

Giulia Conti

Tariffe cresciute in pochi anni

Nel giro di pochi anni Amazon ha modificato in maniera significativa il prezzo del suo abbonamento Prime, che in Italia comprende anche l’accesso a Prime Video. Dopo il passaggio del 2018 da 19,99 euro a 36 euro l’anno, nel 2022 è arrivato un ulteriore aumento che ha portato il costo annuale a 49,90 euro e quello mensile da 3,99 euro a 4,99 euro. Per gli studenti e per i giovani tra 18 e 22 anni è rimasta una formula agevolata al 50% circa, ma per la maggior parte degli utenti il servizio oggi è sensibilmente più caro rispetto al passato. Si tratta di rincari che l’azienda ha giustificato con l’estensione dei servizi Prime e con l’aumento dei costi di produzione dei contenuti, ma che molti abbonati percepiscono come un mutamento del rapporto tra prezzo pagato e valore effettivamente ricevuto.

Più pubblicità per chi non paga extra

Parallelamente all’aumento delle tariffe si è verificato un altro cambiamento: l’inserimento di più interruzioni pubblicitarie dentro i contenuti di Prime Video. Al momento del lancio degli spot, le inserzioni erano limitate a circa 2-3 minuti per ogni ora di visione. Nel corso del 2025 la durata è arrivata in molti casi a 4-6 minuti all’ora, quindi più che raddoppiata. Il gruppo aveva anticipato già nell’autunno 2024 agli investitori che la versione standard avrebbe ospitato più pubblicità e che solo chi avesse attivato l’opzione aggiuntiva avrebbe potuto evitarla. Oggi, infatti, chi desidera guardare film e serie senza annunci deve pagare 1,99 euro in più al mese rispetto all’abbonamento base. In pratica, il servizio è diventato a due livelli: uno con pubblicità (compreso in Prime) e uno “pulito” riservato a chi è disposto a sostenere un costo ulteriore.

Catalogo ampio ma con molti titoli a pagamento

L’aumento del prezzo e degli spot non coincide, secondo molti abbonati, con una crescita proporzionale dell’offerta inclusa. Una parte consistente dei contenuti presenti sulla piattaforma viene infatti proposta a noleggio o in acquisto. Film recenti, titoli molto richiesti o pellicole considerate “di punta” non rientrano nel pacchetto compreso nell’abbonamento, ma richiedono un ulteriore esborso. Diversi utenti, nelle aree di assistenza e nelle community dedicate al servizio, hanno segnalato di aver visto passare nel tempo alcuni film dalla disponibilità gratuita alla modalità a pagamento. L’effetto percepito è quello di un catalogo molto vasto, ma con una quota significativa di opere collocate dietro una seconda barriera di prezzo. Per chi aveva scelto Prime Video confidando in un’offerta “tutto compreso”, la sensazione è che il servizio oggi chieda di pagare di più in cambio di contenuti meno immediatamente accessibili.

Un modello che massimizza i ricavi

La strategia adottata da Amazon risponde alla logica di un modello ibrido di monetizzazione. Da un lato ci sono i ricavi sicuri provenienti dagli abbonamenti Prime, che a livello globale superano i 200 milioni di iscritti in 25 Paesi. A questi si sommano i proventi degli utenti che attivano la versione senza pubblicità pagando il sovrapprezzo mensile. Infine, vi è un’ulteriore entrata derivante proprio dalla pubblicità, resa più interessante per gli inserzionisti grazie all’aumento dei minuti disponibili. Il risultato è un sistema in cui l’utente contribuisce in almeno una di queste tre forme e, in molti casi, in tutte: canone annuale o mensile, pagamento per rimuovere gli spot, pagamento per singoli film o serie fuori catalogo. Dal punto di vista dell’azienda si tratta di un meccanismo efficace e scalabile; dal punto di vista dell’abbonato, però, il rischio è la percezione di un servizio “spezzettato”, nel quale l’accesso completo richiede pagamenti successivi.

Reazioni degli utenti e contesto aziendale

L’accumulo di questi elementi – aumenti di prezzo, pubblicità più frequente, contenuti premium non inclusi – ha generato un diffuso malcontento tra gli abbonati italiani. Sui forum e nei canali di assistenza diversi clienti hanno osservato che il rapporto qualità/prezzo non è più quello degli anni iniziali e che la promessa implicita di un catalogo ampio compreso nel canone oggi appare meno solida. Alcuni hanno sottolineato che per evitare gli spot bisogna pagare ancora, e che per vedere determinati film bisogna pagare ancora una volta: una sequenza di costi che attenua il vantaggio iniziale dell’abbonamento unico. Questo avviene mentre il gruppo ha comunicato, nel 2025, la soppressione di 14.000 posti di lavoro in varie aree aziendali, a fronte di indiscrezioni dei media statunitensi che parlavano di possibili tagli fino a 30.000 unità. Il quadro complessivo è dunque quello di una piattaforma che cerca maggiore redditività in un momento di espansione dei costi e di pressione competitiva, trasferendo una parte di tale sforzo anche sugli utenti finali.